-COLLANA LIBRI D'ARTE-
Arpinè Sevagian
Gerhard Richter
La rappresentazione lontana da schemi espressivi
Esplorando il mondo di Gerhard Richter scopriamo che la sua idea di pittura è intima e personale («Riesco a dipingere contro la mia volontà. E questo lo vivo come un grande arricchimento», ha scritto), l’artista non esprime un’opinione sul mondo, ed è il motivo per cui tantissime delle sue opere sono sui toni dei grigi: l’osservazione in Richter prevale sempre sul punto di vista. «Noi definiamo troppo velocemente la realtà, liquidandola prima del tempo», come lui stesso spiega. Per questo Richter lavora sulle sue opere cercando di filtrare ogni soggettività, evitando ogni ricorso a uno stile che le possa definire. Artista eclettico, in esercizio continuo per non entrare mai in un ambito definito e protetto: ad esempio i grandi quadri composti di caselle colorate regolari, sembrano avere la funzione di un esercizio visivo ma anche servono a raffreddare il suo stesso ego. «Voglio essere neutrale, che è l’antitesi dell’essere ideologici», dice Richter. E l’ideologia non è solo quella dell’arte schierata, ma è anche quella dell’arte che sceglie di non intrappolarsi dentro uno schema espressivo. Per questo Richter ha avuto nella fotografia un punto di riferimento a cui guardare sempre: come l’immagine fotografica non crea l’immagine ma la registra, così la sua pittura cerca di seguire quella strada diventando una forma di paziente indagine sul mondo. Perché prendendo come soggetti spunti che la storia o la sua biografia gli mettono sotto gli occhi, la pittura di Richter vive nella tensione di capire, di stabilire nessi, di cercare risposte alle domande ultime che ogni circostanza porta con sé, interrogare e interrogarsi, senza pretesa. Per fare questo percorso Richter, artista assolutamente moderno, chiede un soccorso al classico. «Il classico mi aiuta a concentrarmi», ha detto. «Mi dà forma, contiene la mia confusione, fa sì che io continui ad esistere. Non è mai stato un problema per me. È essenziale per la vita». Lui sa che il “classico” appartiene a un mondo che non è più il nostro e che per lui è impossibile un destino alla Vermeer (per citare l’artista del passato a cui guarda con più venerazione). Eppure il confronto è sempre aperto. Nella mostra alla Fondation Beyeler (conclusa il 7 settembre scorso) intitolata "Pictures/series", organizzata con la collaborazione dell'artista e del suo immenso archivio, con il sostegno di Sam Keller, direttore della Fondazione, il curatore Hans Ulrich Obrist, condirettore della Serpentine Gallery di Londra, ha realizzato un'esposizione che sposta il peso sui cicli e le serie delle opere. Le serie per Richter hanno avuto diversi significati sin dal momento della loro creazione, motivo per cui non ha senso metterle sullo stesso piano e di questo aspetto - oltre che della relazione con gli spazi - tiene conto l'allestimento della mostra (con la collaborazione di Michiko Kono, Associate Curator presso la fondazione di Basilea). Molte delle opere sono accomunate da temi o da soggetti e/o da accostamenti cromatici, altre da tecniche e stili di lavorazione, dagli astratti (tra cui Bach del '92) alle recenti stampe digitali, passando per le opere con gli specchi (anni Novanta). Ci sono le tele fatte di interi grigi (serie realizzata negli anni Settanta), ci sono anche le singole opere che, con il tempo, sono diventate icone riconoscibili tra la sterminata produzione di Richter. Tra queste, sono degne di nota "Betty", del 1988, ed "Ella" del 2007, due tele sature di colore passato ad olio su tela, che prendono entrambe il nome delle due figlie femmine dell'artista. Un nuovo appuntamento con una grande mostra italiana dell’artista tedesco si terrà a Roma al Palazzo delle Esposizioni (ancora in attesa di conferma, visto che era previsto in autunno ma è stato posticipato) in primavera, probabilmente tra marzo e giugno del prossimo anno, ma date e prenotazioni sono per ora provvisorie.
Jacopo Cardillo
Il simbolo si coniuga con il rito e la magia con l’inconscio
<< Chi amando insegue le gioie della bellezza che fugge, riempie la mano di fronde e coglie bacche amare>>.
Maffeo Barberini
Partendo dall’analisi di questa emblematica frase di Maffeo Barberini (Urbano VIII) è più facile spiegare la complessa personalità di un artista come Jacopo Cardillo. Tutta la formazione umana è basata su un’energia vitale (libido) che dalla nascita spinge alla creazione della personalità. L’artista avverte la propria solitudine in una società che lo rinnega e si rinchiude in sé, tramutando il suo complesso d’inferiorità rispetto al tutto, in orgoglio. Non c’è più in lui l’impegno a dialogare e a guidare i popoli verso la conoscenza. L’artista diventa portavoce di se stesso, in una società in cui non si riconosce. La società di cui parliamo è quella dell’ “Opera d’Arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” analizzata da Walter Benjamin, nel suo famoso saggio. Qui, l’autore sostiene che l'introduzione, all'inizio del XX secolo, di nuove tecniche per produrre, riprodurre e diffondere, a livello di massa, opere d'arte ha radicalmente cambiato l'atteggiamento verso l'arte sia degli artisti sia del pubblico. Il fenomeno che Benjamin chiama la "perdita dell'aura" dell'opera d'arte (una sorta di sensazione, di carattere mistico o religioso in senso lato, suscitata nello spettatore dalla presenza materiale dell'esemplare originale di un'opera d'arte) non tocca l’opera dello scultore Jacopo Cardillo.La poetica dell’artista non ha perso l'aura, il carattere di sacralità e si pone l'obiettivo di emozionare, di trasmettere, di comunicare in maniera intima e personale il suo universo artistico. Il gusto per l’autoanalisi come ricerca di quelle zone inesplorate della propria coscienza, e di una realtà più autentica. Il misticismo come ricerca quasi religiosa di una realtà aldilà del sensibile. L’estetismo come ricerca di un’arte che si configura come pura bellezza, rigettando ogni considerazione morale, ogni dovere imposto dalla convivenza sociale. Queste caratteristiche dell’opera di Jacopo Cardillo rendono l’artista libero dalle costrizioni della società e della morale imperante. Libero di esprimere la piena creatività del proprio “Io” e di imporla. Se è vero che l’uomo ha una tripla natura (appetitiva,irascibile e razionale), possiamo affermare che nell’opera di Jacopo Cardillo c’è un perfetto equilibrio delle parti. La sete,l’appetito di conoscenza, l’impeto, la passione ma anche la ragione. Apollineo e dionisiaco si fondono in Jacopo Cardillo e si manifestano attraverso opere razionali ma allo stesso tempo passionali, dove alla perizia tecnica e all’attenzione della forma si unisce il contenuto emotivo. Questa antitesi terminologica dell’apollineo e del dionisiaco introdotta nel linguaggio filosofico da Nietzsche, ben si presta per illustrare i due impulsi essenziali dai quali nasce l’arte di Jacopo Cardillo, «opera artistica altrettanto dionisiaca quanto apollinea». Lo spirito apollineo che è ordine e armonia delle forme, domina l’arte plastica dell’artista, mentre lo spirito dionisiaco che è ebbrezza ed esaltazione entusiastica priva di forma ne pervade la musica. Jacopo Cardillo è, infatti, musicista oltre che scultore. La straordinaria forza vitale del suo poliedrico manifestarsi artistico , nasce dal ‘miracolo’ dell’unione tra l’entusiastica accettazione della vita che si esprime nell’ebbrezza creativa e nella passione sensuale e il tentativo di risolvere e superare il caos in forme limpide e armoniche. Il ‘miracolo’, secondo Jacopo Cardillo ,è l’incapacità di sostenere la tragica realtà della vita – con i suoi dolori, le sue assurdità, le sue insensatezze – e il desiderio di rappresentarsela come una vicenda ordinata, razionale, dotata di senso. Confrontandosi sia con il passato, prediligendo il marmo, sia con il presente, usando anche materiali diversi come la gomma piuma e lo stagno. Senza perdere il contatto con la realtà e con tutto ciò che lo circonda, interpretandola attraverso scrupolosa ricerca e metodo e donandola con generosità allo spettatore.
Vito Viola
La pittura come scrittura e immagine : “ognuna il desiderio dell’altra”
Comunicare significa trasmettere, diffondere, rendere partecipi di…….. La comunicazione è una pratica essenzialmente umana attraverso la quale si <<mettono in comunione>> idee, sentimenti, emozioni, informazioni. Per comunicare ci serviamo delle nostre facoltà intellettive e della nostra capacità di articolare i segni. In effetti attraverso colori, gesti, parole comunichiamo dei significati. Attraverso la scrittura, poi, lasciamo un segno di noi che rimane impresso nella memoria. La pittura, la scultura, l’architettura, il teatro e il cinema sono arti espressive per eccellenza e si servono di diversi linguaggi per comunicare. A volte questi linguaggi si sovrappongono fondendosi in un’opera d’arte totale dove tutto assimila tutto. Questo è il caso unico di Vito Viola. L’artista usa segni, lettere, segmenti, crittografie, geroglifici e punteggiature, atomi linguistici così come si trovano sulle pareti degli edifici degradati che portano le tracce del trascorrere del tempo e della storia, grandi lavagne che accolgono nella realtà urbana gli sfoghi dell'umanità. L’opera di Vito diventa una possibile assimilazione dello spazio della tela a un frammento di muro, con graffiti e incrostazioni come memorie delle preesistenze vitali e sovrapponendo la scrittura alla pittura ritrova la radice del linguaggio, quella sintesi che Paul Klee così descrive: "Nei tempi antichissimi, quando scrittura e disegno coincidevano, la linea era l'elemento primo”. E come Gastone Novelli, suo artista di riferimento, scrive: “ La validità di un’opera è allora, nella validità del mondo che essa comunica…” e ancora “Un pittore è solamente un intermediario, un individuo che attinge qualche cosa dalla verità più nascosta, più valida, al di fuori di se stesso e nel più intimo del proprio io e ne fissa l’essere e il divenire di un’immagine che è da guardare. In questi due atti, del fissare e del guardare, è il rapporto fra colui che crea e colui che gode della creazione, fra l’artista e la società in cui vive”. Come Gastone Novelli vedeva nella pittura un modo di “esprimere per segni ciò che non si può o non si sa esprimere con le azioni” così Vito Viola vede la sua arte dalle molteplici sfaccettature. Singolare il suo modo di sfuocare la linea tra disegno e pittura. Le sue opere , a tratti ricordano i graffiti accumulati in anni sui bagni dei gabinetti, a tratti delle tracce lasciate per imprimere il momento, il “qui e ora” dell’artista. Come se il “fanciullino” che c’è in ognuno di noi venisse fuori nel pieno della sua espressività e dicesse: “io sono qui ora in tutta la mia essenza”. In questo modo Vito abbandona la pittura come rappresentazione, citando la linea o macchiando ogni segno con la sua propria storia, come soggetto a sé. Le sue pitture e i suoi lavori su carta vanno verso il "simbolismo romantico", e i titoli possono essere interpretati visivamente attraverso forme e parole. Una sorta di “Poesia visiva” in continua e costante evoluzione…